Mica tutte le donne devono mettere la gonna.
Però se lo vogliono fare, cosa può succedere?
La scorsa settimana ha fatto molto discutere questo articolo riportato sui social network da Michela Murgia:
Tutto tristemente già visto:
- considerazioni sull’aspetto fisico della giornalista e non sulla sua capacità professionale;
- parole come vestitino leggero, estate birichina, semplicemente bella, pelle ambrata e nessun riferimento vero alla tematica oggetto dell’incontro (di cui avrebbe presumibilmente dovuto parlare l’articolo).
In più il pezzo è stato scritto da una donna e questo ha scatenato ancora più malcontento.
Fino a qui, come dicevo, tutto “mestamente nella norma”.
È del dicembre 2016 questo mio articolo dal titolo “donne che odiano le donne”. Purtroppo siamo sempre allo stesso punto.
Per questo motivo non avevo intenzione di commentare ancora in merito ma poi ho letto questi tweet:
Quindi fatemi capire bene: per essere presa sul serio mi devo auto-limitare? Mi devo “travestire”?
Vi faccio una domanda: credete che in questo modo le cose cambieranno?
Se noi donne continueremo a confermare con le nostre parole e le nostre azioni che femminilità significa mancanza di credibilità avremo qualche chanche che le nostre figlie non subiranno il trattamento della giornalista di Sky?
Vi voglio raccontare una cosa.
Vi voglio raccontare di quando a metà ‘800 l’uomo compì quella che venne definita “la grande rinuncia”.
Decise che la moda era qualcosa di troppo frivolo di cui occuparsi e determinò l’abbigliamento maschile nella divisa giacca, pantaloni, gilet, cravatta che ancora adesso conosciamo.
Addio ai tessuti operati, alle fantasie e ai colori sgargianti che per tutto il Settecento avevano impreziosito anche le fogge degli abiti da uomo.
Evviva il nero, il grigio e le regole precostituite perché, come affermava Lord Brummel:
“Se John Bull (alias l’uomo della strada) si gira a guardarti non sei ben vestito, sei troppo rigido o troppo sobrio o troppo alla moda”.
Con il risultato per dirla con Balzac che “siamo tutti vestiti come se andassimo ad un funerale”
La moda quindi si è fatta una cosa da donne.
La moda è, da quel momento, diventata uno strumento per le donne.
Affermare il proprio pensiero non era una cosa semplicissima per una persona di sesso femminile, anche se appartenente ad un ceto abbiente. Pensiamo a chi era così audace da scrivere addirittura un libro e poi, però, lo doveva firmare con uno pseudonimo maschile come George Sand.
La moda è stata per la donna, di fatto, un modo per comunicare la sua identità in un periodo in cui questo le era precluso.
Così come la nascita della borsetta, che ti racconto qui, le aveva fatto intendere la sua capacità di possedere qualcosa e non solo di essere oggetto di possedimento, avere diritto di giudizio e scelta su forme e colori degli abiti fu l’inizio verso un processo di liberazione.
Non è un caso che proprio nel periodo della “grande rinuncia” Amelia Bloomer, una militante per i diritti femminili, si fosse inventata questi:
I bloomers, primo prototipo di pantaloni, provocatori e adatti ad attività pratiche, straordinariamente concesse anche alle donne, come andare sulle prime biciclette (come si legge in un editto francese del 1892).
Simbolo di protesta nei confronti di accessori come l’ingombrante crinolina in voga nel periodo, da portare sotto le gonne, intessuta di pesanti crine e costruita per ingabbiare il corpo e lo spirito femminili.
Pantaloni come rivincita del sé e non come rinuncia però!
Non mi stancherò mai di dirlo: la moda è visiva, la moda è colore, i nostri vestiti sono la prima cosa che le persone osservano di noi, ancora prima che possiamo aprire bocca, e per questo portano con loro dei potenziali pregiudizi.
Sta a noi scegliere se vedere questo meccanismo inevitabile come una condanna o come un’opportunità.
Un’opportunità per spiegare chi siamo prima di confermarlo a parole.
Un’opportunità, come dicevano i futuristi, per affermare i nostri valori e la nostra unicità.
(qui trovi il racconto di come la tuta divenne la divisa futurista).
Un’opportunità per scardinare, grazie all’immediatezza dell’immagine, gli stereotipi invece di confermarli.
Se tu scegli di abdicare il tuo diritto di comunicare non puoi che aspettarti una reiterazione di dinamiche come quelle che l’articolo di cui sopra è foriero.
Diverso se invece scegli di dire, a parole e con il tuo abbigliamento, “io non mi faccio abbattere nella mia identità dai tuoi giudizi e non vengo a patti con il mio stile personale per accontentarti”.
Dimostrando che puoi parlare di economia indossando il tuo vestitino leggero, avrai compiuto un ulteriore passo verso la tua e la nostra emancipazione.
Specialmente se lo fai con naturalezza e il sorriso, proprio come la giornalista nella foto.
Inoltre, se i tuoi vestiti sono coerenti e armoniosi con quello che sei, non potranno “distrarre” i tuoi interlocutori dalle tue parole, anzi, non faranno altro che confermare ancora di più quello che dirai.
Hai mai pensato, per esempio, che potresti usare una collana gialla per raccontare la tua capacità di pensare fuori dagli schemi?
O indossare un abito in pizzo per spiegare la tua vena romantica e abbinarlo ad una giacca in pelle intonata al tuo carattere tosto?
Hai mai riflettuto sul fatto che se ti nascondi e indossi i pantaloni o non metti il rossetto ai convegni, in ufficio, al lavoro e lo fai per non essere giudicata confermi implicitamente che qualcuno ti può giudicare?
Confermi che i centimetri di tacco o di coscia esposta diventano inversamente proporzionali all’ intelligenza di una persona.
Io penso che Amelia Bloomer, con lo spirito indipendente che la contraddistingueva, adesso ti direbbe di non avere paura ad andare su un palco o ad un evento, indossando una gonna (sempre se tu lo desideri e se è intonata al tuo racconto per immagini più autentico).
Una gonna per dire che tu non rinunci né alla tua femminilità né al tuo diritto di parola, pensiero e opinione.
Una gonna per affermare sia la donna che la professionista che sei.
Una gonna perché la “grande rinuncia” al femminile non sia quella della libertà di espressione.
Non è facile lo so: non è facile tutte le volte che il capo ti fa la battuta, il collega ti si struscia vicino, la collega ti lancia l’occhiata, la giornalista scrive che sei abbronzata prima di quanto sei competente.
Ma tanto lo faranno lo stesso, lo faranno comunque.
Entrare da quella porta e affermare fin da subito chi sei sarà sempre più liberatorio di guardarti allo specchio e non riconoscerti perché ingabbiata nella moderna versione della crinolina.
E avrai messo il tuo tassello nella strada verso il cambiamento.
Cambiamo il mondo a parole.
Cambiamo il mondo con la nostra immagine.
rossellaboriosi dice
Bellissimo articolo, Anna. Bellissimo.